• Tre dame e un destino di lusso e lussuria a Venezia

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    Immaginatevi la scena. Venezia 1913: lontane le orde low cost, deambulanti in calzoncini e canottiera mentre si ciucciano la bottiglietta d’acqua; impensabili l’invasione di masse adipose lungo le calli, i tuffi dal ponte di Calatrava, la rivolta contro il turismo di massa. No, niente di tutto questo. Nel chiarore rarefatto di un tramonto di cento anni fa, dalle acque della laguna tremolanti come in una veduta del Guardi si staglia il profilo slanciato di una signora che sbarca da una gondola a San Marco. E’ l’ora del passaggetto. Preceduta da un servo di colore inturbantato con un leopardo al guinzaglio, la gran dama incede solenne. Alta, sottile, ha indosso una lunga cappa rosso oro di Fortuny, che lascia intravedere il corpo nudo e nervoso, in testa un cappellino di pelliccia, al collo lunghe catene d’oro. Si guarda intorno, senza vedere nessuno. Assorta nei suoi pensieri, l’epifania veneziana in movimento è una trentaquattrenne che da tre anni abita al Palazzo Venier dei Leoni. Risponde al nome di Luisa Casati Stampa di Soncino ed è la moglie del marchese Camillo Casati, famiglia di antica aristocrazia lombarda (futuro padre del voyeur omicida, nato da seconde nozze) e madre di una bambina di dodici anni alla quale ha imposto il nome dell’eroina dei suoi sogni, la principessa Cristina Trivulzio di Belgiojoso, famosa nella Milano dell’Ottocento per aver nascosto nel suo armadio il cuore imbalsamato di un suo ex, che continuava a convocare dall’aldilà con speciali sedute spiritiche. Oltre a essere come lei patita di spiritismo e scienze occulte, la divina marchesa è una delle più grosse fortune d’Italia. Orfana sin da ragazza di entrambi i genitori, è la figlia di Alberto Amman, l’industriale d’origine austriaca che a partire da un modesto mulino di famiglia aveva creato in Val Seriana un cotonificio all’avanguardia, partecipato alla fondazione della Banca industriale e commerciale, accumulando un patrimonio ingente e distinguendosi per la sua filantropia.

       

    L'inglese Judith Mackrell ha ricostruito le loro vicende in un libro ricco di spunti sui costumi delle élite cosmopolite del Novecento

    Priva delle doti paterne e lievemente autistica di suo, anzi affetta dalla sindrome di Asperger, la figlia passerà gli anni in balìa della sua stranezza interiore e delle più inverosimili fantasie, sempre in cerca di un’espressione artistica da dare alla sua vita, sino a trasformare se stessa in un’opera d’arte, mettendo in scena continue performance, circondandosi di artisti di talento, inseguendo il bello, l’eccentrico, il fuori misura, per finire i suoi giorni in perfetta miseria a Londra, avvolta da un’aura di mistero che la farà apparire come un fantasma il giorno in cui, inaspettatamente, si presenterà in carne e ossa, ormai vecchia e vacillante, alla Royal Academy, per assistere all’inaugurazione di una mostra di Augustus John, uno dei suoi antichi amanti che trent’anni prima le aveva dedicato due ritratti famosi. Avendo per ultima compagna soltanto la sua svagata eccentricità, incurante del mondo, indifferente alla realtà e al suo peso, riuscirà a sopravvivere proponendo ai rari amici in visita qualche simpatica alternativa: “Ho soli dieci scellini. Ci scoliamo una bottiglia di vino da poco, o facciamo un giro in taxi?”.

       

    La mascherata veneziana sarà una delle sue innumerevoli performance e di certo non la più effimera. Perché a Venezia Luisa Casati ha legato il suo destino al bel palazzo in pietra d’Istria, costruito nel Settecento sul Canal Grande per celebrare la dinastia del doge Sebastiano Venier, l’eroe della vittoria a Lepanto contro i Turchi, e però mai finito per il tracollo della famiglia, per la caduta della Serenissima Repubblica marinara dopo l’arrivo e il tradimento di Napoleone, e soprattutto per l’ implacabile opposizione dei Corner, altra famiglia dogale proprietaria dell’omonimo palazzo sulla riva opposta, che per nulla al mondo avrebbe voluto veder oscurato da quello dei Venier.

      

    Così, ancora oggi nel sestiere di Dorsoduro, dell’imponente progetto neoclassico di Lorenzo Boschetti che prevedeva cinque piani con portico e attico tra l’Accademia e la Salute, restano solo le fondamenta e un piano in marmo bianco, con i tre pilastri per gli archi del portico, le otto teste di leone che sporgono dal basamento della facciata, e la statua in bronzo di Marino Marini, che rappresenta l’Angelo della città, simbolo dell’edonismo pagano venessiàn, e cioè un ometto con le braccia aperte in sella a un cavallo e tanto di fallo in erezione, ma svitabile, per non turbare le autorità ecclesiastiche, scultura commissionata all’artista fiorentino dall’eccentrica Peggy Guggenheim, ultima proprietaria del palazzo che oggi ospita la sua collezione di capolavori del Novecento.

       

    Preceduta da un servo di colore con un leopardo al guinzaglio, incede solenne con indosso una lunga cappa rosso oro di Fortuny

    Ecco allora che intorno a quell’immobile incompiuto s’avvolge il filo rosso che lega Luisa Casati e Peggy Guggenheim in una trama fantastica che include anche il profilo di un’altra donna, l’inglese Doris Castlerosse, che tra l’una e l’altra fu per breve tempo proprietaria del palazzo, prima della guerra e della requisizione da parte dell’esercito tedesco. E’ un filo rosso che all’insegna dello sfarzo, dei tessuti inventati da Mariano Fortuny con la loro finzione (far apparire seta un cotone trattato e dipinto con speciali procedure rimaste segrete) accomuna nella ricerca di un destino straordinario tre donne vissute nel lusso più eccentrico, e nell’ostentazione della ricchezza, tre donne votate al bello e dedite all’arte come prima ragione di vita e alla vita come perfetta rappresentazione del sublime. E spetta oggi a Judith Mackrell, una giornalista del Guardian esperta di danza, il merito di aver sciolto con pazienza la matassa di questo filo da cima a fondo in un gran bel libro (“The Unfinished Palazzo, Life, Love and Art in Venice, Thames &Hudson, 408 pag, £ 19,95 ) che si legge come un romanzo, pieno com’è di indiscrezioni e colpi di scena, di spunti mai pedanti sui costumi delle élite cosmopolite e sulla storia del Novecento, e permette di ricostruire l’intero puzzle del destino delle tre donne che hanno lasciato la loro impronta su Palazzo Venier.

      

    Quando Luisa Casati lo prese in affitto nel 1910 da una ricca aristocratica francese, cercava di darsi una nuova identità per sfuggire alla noia della sua vita milanese e al naufragio di un matrimonio combinato. Trovò il palazzo in stato di semi-rovina, ma volle mantenerne l’illusione di abbandono, con l’aura da romanzo gotico, la vite americana cresciuta alla rinfusa sulla facciata, il giardino selvatico, la patina malinconica del tempo. S’industriò per arredarlo ex novo e con Roberto Montenegro scelse il marmo bianco, le tende dorate, dipinse la scala d’oro in grigio verde, mise alcune statue dorate nel giardino e lo riempì di animali: gatti, piccioni, levrieri, serpenti, uccelli con le penne ossigenate, per dare al tutto un tocco di esotismo misterioso. Oltre al leopardo, che veniva sedato con l’oppio e accompagnato in giro al guinzaglio dal servitore nero, c’era anche una pantera, e quando s’aprivano i cancelli la sorpresa era tale che la gente applaudiva.

       

    La divina marchesa, celebrata nel 2015 con una mostra a Palazzo Fortuny a cura di Fabio Benzi (vedi il catalogo pubblicato da Skira) fu la musa, l’ispiratrice e l’ossessione erotica di D’Annunzio, orribile e calvo, ma dal timbro di voce inebriante. Esteta e rivoluzionario, eletto in Parlamento col Partito della bellezza, aduso a bere champagne da teschi umani, sarà proprio D’Annunzio a farle scoprire Venezia e Isadora Duncan, la pittura di Boldini, dal quale la marchesa si farà subito ritrarre a Parigi, e il dandismo di Robert de Montesquiou, amico di Marcel Proust e suo futuro vicino di casa a Vésinet. E sarà sempre D’Annunzio a concupirla con pazienza e a conquistarla dopo anni attesa, ribattezzandola Corè e immortalandola in “La figura di cera”, romanzo mai pubblicato che finirà nel “Libro segreto”. Dopo averne sperimentato l’intimità violenta da assatanata frigida, sarà ancora D’Annunzio, il seduttore seriale, il genio alato di Fiume, l’innamorato senza speranze, a patirne più di chiunque altro la freddezza, gli scarti d’umore, l’impenetrabilità e l’alienazione mentale.

      

    La marchesa non scherzò nemmeno con Diaghilev e Stravinskij, né col povero Leon Baskt, il geniale costumista che per lei creò i vestiti dei suoi balli inverosimili, come quello in cui comparve nei panni di Sarah Bernard, per riviverne la morte, lasciandosi portare in processione al lume di candela sulla laguna sino a Torcello. Un’altra volta per una festa jazz sul Canal Grande durata fino a notte fonda, Luisa Casati, sempre grazie all’estro di Baskt, comparve su un piedistallo vestita da arlecchino, con tanto di scimmia sulle spalle.

       

    In balìa della sua stranezza, in cerca di un'espressione artistica da dare alla sua vita, sino a trasformare se stessa in un'opera d'arte

    Matta, ricca, generosa, incapace di calcolo, indifferente ai conti e alla meschinità dei bilanci, la marchesa finanziò l’edizione italiana dei Balletti Russi, rifiutando però l’invito di Diaghilev che voleva farla danzare. Si divertì a umiliare Nijinskij facendogli ballare il valzer con Isadora Duncan. Riuscì a irretire Jean Cocteau, che la bollò come “le plus beau serpent du paradis terrestre” per quella sua abitudine di ostentare un boa constrictor a mo’ di collier, aspirando da un bocchino infinito una sigaretta di marijuana. Conquistò persino il futurista Marinetti, che l’adorava pur essendo lei un retaggio del passato, mentre Depero e Picasso ai loro albori erano assidui frequentatori dei ricevimenti nel villino liberty che si era fatta costruire a Roma nel Quartiere Pinciano, in via Piemonte 51. La grande vamp del Novecento era capace di ammaliare e sconcertare, non senza dare in escandescenza come il giorno in cui scaraventò i gioielli dalla finestra della suite di un albergo, offesa per vedere disatteso un suo ordine d’arredo, o il giorno in cui si mise a inveire come una lavandaia contro il figlio dell’imperatore tedesco Guglielmo II che aveva osato mostrarsi indifferente nei suoi confronti, accogliendo nella sua carrozza un’altra al posto suo. Fu un’esibizionista eccentrica e insistente, immortalata da Boldini, da Augustus John nella sua chioma rossa leonina, da Man Ray che ne moltiplicò il sortilegio dello sguardo da Medusa surrealista, con le pupille dilatate per le gocce di belladonna che aveva l’abitudine di iniettarsi apposta, e persino da Cecil Beaton, il mondanissimo fotografo che la fotografò di soppiatto, poco prima che morisse, col viso dietro una veletta nascosto da una mano guantata. Adulata, imitata, invidiata, rimase sola come un cane quando finì per dissipare del tutto l’immenso patrimonio paterno, per ritrovarsi a Londra, in una misera camera ammobiliata, messa al bando dal genero, foraggiata dalla sola nipote Moorea Hastings, la figlia di Cristina che in prime nozze aveva sposato un altro eccentrico, discendente dei Plantageneti ma con smanie da artista, insieme al quale dopo lungo girovagare per il mondo sarebbe finita nei letti messicani di Frida Kahlo e Diego Rivera…

       

    Come Luisa Casati, anche Peggy Guggengheim era una patita dell’arte come forma estrema dell’esistenza. Anche lei era nata miliardaria, ma diversamente dalla marchesa moltiplicò per mille il suo capitale, comprando opere d’avanguardia per pochi dollari in piena guerra, salvando dalla fame e dalla galera artisti destinati alla gloria, battendo la borsa nera, trattando senza complessi con la mafia marsigliese, e realizzando il sogno di una vita bohémienne con tutti i suoi attributi: gusto sfrenato del sesso, compensatorio o fine a se stesso, passione cieca e tenace, masochismo, insensibilità emotiva, disastri umani a iosa (amanti morti di colpo, mariti alcolizzati o traditori, figli trascurati e dunque molto disturbati, di cui una femmina, Pegeen, bella depressa e poi suicida, e un maschio, Sindbad, da lei considerato sempre un minus habens). In effetti, l’ultima dogaressa veneziana era un’insicura, animata però da feroce egoismo, curiosità vorace e instancabile energia. Ancora vecchia sfrecciava sulla Laguna con i suoi occhialetti pop a bordo del motoscafo Cleopatra, e quando dovette venderlo si faceva cullare sulla gondola coi fregi d’oro scolpiti in rilievo. Anche lei come Luisa Casati aveva scelto Venezia per rifarsi una vita, dopo il naufragio del secondo matrimonio con Max Ernst, dopo una serie di avventure di letto senza costrutto, e dopo aver deciso di chiudere a New York la sua galleria-museo unica al mondo, Art of this Century, aperta durante la guerra per riunire insieme per la prima volte opera d’arte europee e americane. All’opposto della marchesa Casati che inseguiva i suoi fantasmi per ricrearsi una realtà parallela tutta sua, Peggy Guggenheim plasmava la realtà per ricavarne un sogno collettivo. Pragmatica, attenta al soldo, determinata, essendo nata americana era una volitiva, piena di risorse, disposta a tutto e sempre pronta a rinnovarsi di continuo e andare avanti, infilandosi in qualche nuovo letto senza andare troppo per il sottile, pur di uscire da un legame infelice, fosse il connubio impossibile con Laurence Vail o il divorzio umiliante da Max Ernst, che si era fatto incastrare obtorto collo sempre secondo lo stesso schema – l’amante ricca e generosa che annettendosi il genio gli garantisce la serenità di creare. Anziché perdersi e farsi consumare dalla vita, ogni volta trovava un nuovo slancio per superare abbandoni, ferite, tradimenti e umiliazioni. Ne visse tante Peggy Guggenheim, e soprattutto, a differenza della divina Casati che pur essendo un’esibizionista restò sempre un’introversa incapace di esprimersi e in fuga dalle emozioni, le volle raccontare in prima persona usando il suo stile maldestro, le battute goffe salvate solo dall’ostentazione dell’autoironia, e ne spiattellò tutti i particolari nelle sue memorie, altro libro da leggere di corsa (“Out of this century”, esiste una traduzione Rizzoli con prefazione di Gore Vidal, che ne andava pazzo).

      

    Del progetto, cinque piani con portico e attico tra l'Accademia e la Salute, restano le fondamenta e un solo piano in marmo bianco

    E pensare che per tutta la vita si sentì una declassata, inadeguata alla grandezza della famiglia. Era la nipote di Meyer Guggenheim, dal quale aveva ereditato il grosso naso, gli occhi penetranti e di sicuro la follia del fare. Il nonno era un ebreo, venditore ambulante di professione, emigrato in America nel 1848 per fare fortuna. Iniziò con i merletti ricamati e un lucido per pulire le stufe, ma nel giro di cinquant’anni si ritrovò a capo di un impero industriale, che all’inizio del secolo controllava il 75 per cento del mercato mondiale dei minerali, rame, argento e piombo. Anche Peggy come Luisa Amman era rimasta orfana bambina, quando suo padre Benjamin, marito molto sciupafemmine di una moglie ossessiva, perse la vita da eroe nell’affondamento del Titanic. Ma a differenza dell’italiana, che si fece subito impalmare dal marchese Casati, Peggy Guggenheim aveva un’indole ribelle e iniziò a lavorare in un ufficio per le forniture militari e poi in una piccola libreria al Village, flirtando subito con un giovane capellone che riteneva un genio, mentre era solo un pazzo nevrotico, Laurence Vail. Appena lo rivide a Parigi, dov’era andata in viaggio con la madre, se ne lasciò sedurre e lo sposò su due piedi, felice di abbracciare la bohème letteraria. Vitale, curiosa, cieca a se stessa e disposta a tutto, le botte, le scenate, persino le minacce di morte da parte del marito infelice, perché frustrato e già alcolizzato, gli scodellò due figli e appena possibile lo lasciò per un primo amante – altro capitolo tragico – seguito da una sequela di storie di sesso, sempre però sublimate dall’arte e dalla ricerca spasmodica di un mondo altro, più ricco di quello reale, che la spinse persino nelle braccia di Samuel Beckett, genio silenzioso e aridissimo, dal quale fu puntualmente piantata. Senza darsi per vinta, rimbalzò grazie al suo lavoro, inventandosi a quarant’anni una vita da gallerista, dopo essersi fatta spiegare ben benino da Marcel Duchamps, amico suo dai tempi di Parigi, la differenza tra Picasso e Braque, e aprire a Londra la prima galleria. Fu l’amica di Calder, di Tanguy, l’amante e poi la moglie di Max Ernst, la prima committente di Jackson Pollock, che stipendiò per anni sottraendolo al suo lavoro di fattorino, e moltissime altre cose.

      

    Nel 1946, accompagnando in viaggio di nozze a Venezia l’amica Mary McCarthy (che ne ricaverà un racconto tremendo, “The Cicerone”, dove la protagonista è una Polly Grabbe, ricca ninfomane espatriata che colleziona statue e passa i conti al setaccio), Peggy Guggenheim capisce di voler tornare a vivere lì sulla laguna, dove aveva vissuto i primi anni di matrimonio. Si libera della galleria newyorkese e trasporta l’intera collezione in Italia, accogliendo l’invito a esporla alla Biennale del 1948, nel padiglione greco rimasto vuoto. Inizia così per lei l’ultima metamorfosi della miliardaria che rinuncia alla vita bohémienne per darsi alle mania di grandezza.

       

    Di Luisa Casati non doveva sapere granché, quando scopre, grazie al conte Elio Zorzi, responsabile dell’ufficio stampa della Biennale, l’esistenza del Palazzo Venier. Trasformato in alloggio militare per i soldati tedeschi, il palazzo era in condizione di perfetto abbandono, col giardino ridotto a una palude, i cespugli alti due metri, gli stucchi scrostati, i muri crepati dall’umidità. Ma sotto le impronte degli stivali sporchi di fango dei soldati tedeschi, c’era ancora un bel pavimento in mosaico, e al piano superiore c’erano sei stanze da letto ciascuna col suo bagno. Peggy Guggenheim capì subito che con poche modifiche quel palazzo poteva diventare una galleria, e una casa museo dove vivere e mettere in mostra la sua collezione. All’inizio del 1949 fece un’offerta di 60 mila dollari e concluse l’affare. Il venditore del resto, era talmente bello che l’avrebbe volentieri incluso nel pacchetto.

       

    La stagione di Doris a Palazzo Venier culminò in un famoso ballo di fine estate nel 1938. Gli invitati arrivarono da tutta Europa

    Dudley Delevingne era il fratello di Doris Castelrosse e l’unico erede di quella bella avventuriera inglese dal volto enigmatico, che sembrava la reincarnazione di Moll Flanders. Doris Delevingne era diventata viscontessa di Castlerosse grazie alle improbabili nozze con Valentine Castlerosse, un vecchio aristocratico bruttissimo, grassissimo ma molto spiritoso e così masochista da essere completamente pazzo di lei: in realtà il marito era un mezzo fallito alquanto spiantato, riconvertito nel giornalismo mondano come notista di successo del Sunday Express perché dotato di amici influenti e di una madre castratrice, che fra l’altro furono talmente contrari alla mésaillance da indurlo a perpetrarla. La vita di Doris ha tutti gli ingredienti di un romanzo di Defoe riscritto per i lettori del Novecento: l’estrazione mediocre, la bellezza sfacciata, l’indole ribelle, l’anticonformismo, l’imprudenza, lo smacco sentimentale, la durezza della solitudine, e poi il cinismo che fece di lei une grande horizontale dotata di astuzia luciferina, massima perversione, ancorché priva di fortuna, con conseguente perdizione e un’uscita di scena da tragedia esistenzialista.

       

    A Venezia si respirava ancora l’eco trasgressiva delle sue serate, con danze sfrenate, orchestre di jazz che suonavano fino all’alba, cocktail stravaganti, fumi di alcool, luci sfavillanti sul Canale… Quella di Doris Castlerosse a Palazzo Venier fu una breve, ma intensa stagione. Iniziò nel 1936 con l’acquisto del palazzo a suo favore da parte di una ricchissima ereditiera americana lesbica, conosciuta durante una crociera in Cina con Jean Cocteau, tale Margot Liddon Flick Hoffmann, che le lanciò un’insperata ciambella di salvataggio quando pensava di aver esaurito ogni altra risorsa sul versante maschile. E prima che la guerra mettesse fuori gioco anche in Italia le proprietà degli stranieri, cittadini di paesi nemici, culminò in un famoso ballo di fine estate nel 1938. Gli invitati arrivavano da tutta l’Europa. C’erano molte teste coronate, come il giovane Filippo di Grecia, che anni dopo avrebbe ricordato la serata parlandone con Peppy Guggenheim e offrendole un’altra occasione per una delle sue memorabili gaffe. C’era il mondanissimo Cecil Beaton, che anni dopo avrebbe immortalato la marchesa Casati, e che era stato per due anni uno dei tanti amanti di Doris, nonostante la sua omosessualità conclamata, nonostante l’indifferenza verso di lei confessata nel suo diario, che Doris scoprì leggendolo di nascosto e facendo finta di niente, tanto era a caccia di occasioni per tradire il marito, umiliandolo e ridicolizzandolo pur di sbarcare il lunario.

      

    La sua massima di condotta era semplicissima: “Il letto di una Lady inglese è il suo castello”, e a essa restò fedele per tutta la vita, scegliendo accuratamente il fior da fiore fra i dandy, i colti, i lord e i semplici di spirito da concupire, portandoseli a letto in casa del marito, facendosi regalare appartamenti a Mayfair, cercando di capitalizzare al massimo le uniche risorse di cui disponeva, il suo corpo, il suo fascino perverso, e la perizia nell’uso di un certo muscolo della vagina, pari solo a quella usata da Wally Simpson per conquistare Edoardo VII. Persino Winston Churchill, stando a quanto sostiene Judith Mackrell, finì per cadere nella sua rete, ospite insieme con lei di Maxine Elliot in Provenza, un’estate in cui l’adorata Clementine era partita per una crociera di cinque mesi nei mari del sud, mettendosi a sua volta a flirtare in proprio. Lei aveva 35 anni, lui era un politico famoso che da pittore dilettante le aveva già fatto il ritratto. Una foto li coglie assorti in una conversazione en tête à tête a capo di una lunga tavolata, come se fossero completamente soli in mezzo a tanti ospiti. E pare che gli intimi fossero al corrente delle visite di Churchill nell’attico di Doris a Berkeley Square, ricevuto in dono da un altro amante generoso. Ma in piena guerra quando Doris decise di espatriare in America al seguito di Margot per giocarsi le ultime carte, Churchill fece di tutto per rivederla e la convocò a Washington per un incontro segreto. E quando lei ritornò a Londra come una naufraga, sola, senza un soldo, senza un lavoro, senza un futuro, accusata di tradimento, sentì alzarsi intorno a sé il cordone di sicurezza e, stretta nella morsa della censura, finì per soffocare, nessuno sa se per volontà o per caso, morendo imbottita di barbiturici in una squallida stanza d’albergo.

    Tre dame e un destino di lusso e lussuria a Venezia | Il Foglio

    Augustus Edwin John, “La marchesa Casati”, 1919 (Toronto, Art Gallery of Ontario). In basso, palazzo Venier dei Leoni, sul Canal Grande

    Tre dame e un destino di lusso e lussuria a Venezia

    Marina Valensise

    La prima fu Luisa Casati, musa di D'Annunzio. Poi venne Doris Castlerosse, che ebbe anche Churchill come amante. E infine Peggy Guggenheim, miliardaria, che portò tutti i suoi quadri 

    Immaginatevi la scena. Venezia 1913: lontane le orde low cost, deambulanti in calzoncini e canottiera mentre si ciucciano la bottiglietta d’acqua; impensabili l’invasione di masse adipose lungo le calli, i tuffi dal ponte di Calatrava, la rivolta contro il turismo di massa. No, niente di tutto questo. Nel chiarore rarefatto di un tramonto di cento anni fa, dalle acque della laguna tremolanti come in una veduta del Guardi si staglia il profilo slanciato di una signora che sbarca da una gondola a San Marco. E’ l’ora del passaggetto. Preceduta da un servo di colore inturbantato con un leopardo al guinzaglio, la gran dama incede solenne. Alta, sottile, ha indosso una lunga cappa rosso oro di Fortuny, che lascia intravedere il corpo nudo e nervoso, in testa un cappellino di pelliccia, al collo lunghe catene d’oro. Si guarda intorno, senza vedere nessuno. Assorta nei suoi pensieri, l’epifania veneziana in movimento è una trentaquattrenne che da tre anni abita al Palazzo Venier dei Leoni. Risponde al nome di Luisa Casati Stampa di Soncino ed è la moglie del marchese Camillo Casati, famiglia di antica aristocrazia lombarda (futuro padre del voyeur omicida, nato da seconde nozze) e madre di una bambina di dodici anni alla quale ha imposto il nome dell’eroina dei suoi sogni, la principessa Cristina Trivulzio di Belgiojoso, famosa nella Milano dell’Ottocento per aver nascosto nel suo armadio il cuore imbalsamato di un suo ex, che continuava a convocare dall’aldilà con speciali sedute spiritiche. Oltre a essere come lei patita di spiritismo e scienze occulte, la divina marchesa è una delle più grosse fortune d’Italia. Orfana sin da ragazza di entrambi i genitori, è la figlia di Alberto Amman, l’industriale d’origine austriaca che a partire da un modesto mulino di famiglia aveva creato in Val Seriana un cotonificio all’avanguardia, partecipato alla fondazione della Banca industriale e commerciale, accumulando un patrimonio ingente e distinguendosi per la sua filantropia.

       

    L'inglese Judith Mackrell ha ricostruito le loro vicende in un libro ricco di spunti sui costumi delle élite cosmopolite del Novecento

    Priva delle doti paterne e lievemente autistica di suo, anzi affetta dalla sindrome di Asperger, la figlia passerà gli anni in balìa della sua stranezza interiore e delle più inverosimili fantasie, sempre in cerca di un’espressione artistica da dare alla sua vita, sino a trasformare se stessa in un’opera d’arte, mettendo in scena continue performance, circondandosi di artisti di talento, inseguendo il bello, l’eccentrico, il fuori misura, per finire i suoi giorni in perfetta miseria a Londra, avvolta da un’aura di mistero che la farà apparire come un fantasma il giorno in cui, inaspettatamente, si presenterà in carne e ossa, ormai vecchia e vacillante, alla Royal Academy, per assistere all’inaugurazione di una mostra di Augustus John, uno dei suoi antichi amanti che trent’anni prima le aveva dedicato due ritratti famosi. Avendo per ultima compagna soltanto la sua svagata eccentricità, incurante del mondo, indifferente alla realtà e al suo peso, riuscirà a sopravvivere proponendo ai rari amici in visita qualche simpatica alternativa: “Ho soli dieci scellini. Ci scoliamo una bottiglia di vino da poco, o facciamo un giro in taxi?”.

       

    La mascherata veneziana sarà una delle sue innumerevoli performance e di certo non la più effimera. Perché a Venezia Luisa Casati ha legato il suo destino al bel palazzo in pietra d’Istria, costruito nel Settecento sul Canal Grande per celebrare la dinastia del doge Sebastiano Venier, l’eroe della vittoria a Lepanto contro i Turchi, e però mai finito per il tracollo della famiglia, per la caduta della Serenissima Repubblica marinara dopo l’arrivo e il tradimento di Napoleone, e soprattutto per l’ implacabile opposizione dei Corner, altra famiglia dogale proprietaria dell’omonimo palazzo sulla riva opposta, che per nulla al mondo avrebbe voluto veder oscurato da quello dei Venier.

      

    Così, ancora oggi nel sestiere di Dorsoduro, dell’imponente progetto neoclassico di Lorenzo Boschetti che prevedeva cinque piani con portico e attico tra l’Accademia e la Salute, restano solo le fondamenta e un piano in marmo bianco, con i tre pilastri per gli archi del portico, le otto teste di leone che sporgono dal basamento della facciata, e la statua in bronzo di Marino Marini, che rappresenta l’Angelo della città, simbolo dell’edonismo pagano venessiàn, e cioè un ometto con le braccia aperte in sella a un cavallo e tanto di fallo in erezione, ma svitabile, per non turbare le autorità ecclesiastiche, scultura commissionata all’artista fiorentino dall’eccentrica Peggy Guggenheim, ultima proprietaria del palazzo che oggi ospita la sua collezione di capolavori del Novecento.

       

    Preceduta da un servo di colore con un leopardo al guinzaglio, incede solenne con indosso una lunga cappa rosso oro di Fortuny

    Ecco allora che intorno a quell’immobile incompiuto s’avvolge il filo rosso che lega Luisa Casati e Peggy Guggenheim in una trama fantastica che include anche il profilo di un’altra donna, l’inglese Doris Castlerosse, che tra l’una e l’altra fu per breve tempo proprietaria del palazzo, prima della guerra e della requisizione da parte dell’esercito tedesco. E’ un filo rosso che all’insegna dello sfarzo, dei tessuti inventati da Mariano Fortuny con la loro finzione (far apparire seta un cotone trattato e dipinto con speciali procedure rimaste segrete) accomuna nella ricerca di un destino straordinario tre donne vissute nel lusso più eccentrico, e nell’ostentazione della ricchezza, tre donne votate al bello e dedite all’arte come prima ragione di vita e alla vita come perfetta rappresentazione del sublime. E spetta oggi a Judith Mackrell, una giornalista del Guardian esperta di danza, il merito di aver sciolto con pazienza la matassa di questo filo da cima a fondo in un gran bel libro (“The Unfinished Palazzo, Life, Love and Art in Venice, Thames &Hudson, 408 pag, £ 19,95 ) che si legge come un romanzo, pieno com’è di indiscrezioni e colpi di scena, di spunti mai pedanti sui costumi delle élite cosmopolite e sulla storia del Novecento, e permette di ricostruire l’intero puzzle del destino delle tre donne che hanno lasciato la loro impronta su Palazzo Venier.

      

    Quando Luisa Casati lo prese in affitto nel 1910 da una ricca aristocratica francese, cercava di darsi una nuova identità per sfuggire alla noia della sua vita milanese e al naufragio di un matrimonio combinato. Trovò il palazzo in stato di semi-rovina, ma volle mantenerne l’illusione di abbandono, con l’aura da romanzo gotico, la vite americana cresciuta alla rinfusa sulla facciata, il giardino selvatico, la patina malinconica del tempo. S’industriò per arredarlo ex novo e con Roberto Montenegro scelse il marmo bianco, le tende dorate, dipinse la scala d’oro in grigio verde, mise alcune statue dorate nel giardino e lo riempì di animali: gatti, piccioni, levrieri, serpenti, uccelli con le penne ossigenate, per dare al tutto un tocco di esotismo misterioso. Oltre al leopardo, che veniva sedato con l’oppio e accompagnato in giro al guinzaglio dal servitore nero, c’era anche una pantera, e quando s’aprivano i cancelli la sorpresa era tale che la gente applaudiva.

       

    La divina marchesa, celebrata nel 2015 con una mostra a Palazzo Fortuny a cura di Fabio Benzi (vedi il catalogo pubblicato da Skira) fu la musa, l’ispiratrice e l’ossessione erotica di D’Annunzio, orribile e calvo, ma dal timbro di voce inebriante. Esteta e rivoluzionario, eletto in Parlamento col Partito della bellezza, aduso a bere champagne da teschi umani, sarà proprio D’Annunzio a farle scoprire Venezia e Isadora Duncan, la pittura di Boldini, dal quale la marchesa si farà subito ritrarre a Parigi, e il dandismo di Robert de Montesquiou, amico di Marcel Proust e suo futuro vicino di casa a Vésinet. E sarà sempre D’Annunzio a concupirla con pazienza e a conquistarla dopo anni attesa, ribattezzandola Corè e immortalandola in “La figura di cera”, romanzo mai pubblicato che finirà nel “Libro segreto”. Dopo averne sperimentato l’intimità violenta da assatanata frigida, sarà ancora D’Annunzio, il seduttore seriale, il genio alato di Fiume, l’innamorato senza speranze, a patirne più di chiunque altro la freddezza, gli scarti d’umore, l’impenetrabilità e l’alienazione mentale.

      

    La marchesa non scherzò nemmeno con Diaghilev e Stravinskij, né col povero Leon Baskt, il geniale costumista che per lei creò i vestiti dei suoi balli inverosimili, come quello in cui comparve nei panni di Sarah Bernard, per riviverne la morte, lasciandosi portare in processione al lume di candela sulla laguna sino a Torcello. Un’altra volta per una festa jazz sul Canal Grande durata fino a notte fonda, Luisa Casati, sempre grazie all’estro di Baskt, comparve su un piedistallo vestita da arlecchino, con tanto di scimmia sulle spalle.

       

    In balìa della sua stranezza, in cerca di un'espressione artistica da dare alla sua vita, sino a trasformare se stessa in un'opera d'arte

    Matta, ricca, generosa, incapace di calcolo, indifferente ai conti e alla meschinità dei bilanci, la marchesa finanziò l’edizione italiana dei Balletti Russi, rifiutando però l’invito di Diaghilev che voleva farla danzare. Si divertì a umiliare Nijinskij facendogli ballare il valzer con Isadora Duncan. Riuscì a irretire Jean Cocteau, che la bollò come “le plus beau serpent du paradis terrestre” per quella sua abitudine di ostentare un boa constrictor a mo’ di collier, aspirando da un bocchino infinito una sigaretta di marijuana. Conquistò persino il futurista Marinetti, che l’adorava pur essendo lei un retaggio del passato, mentre Depero e Picasso ai loro albori erano assidui frequentatori dei ricevimenti nel villino liberty che si era fatta costruire a Roma nel Quartiere Pinciano, in via Piemonte 51. La grande vamp del Novecento era capace di ammaliare e sconcertare, non senza dare in escandescenza come il giorno in cui scaraventò i gioielli dalla finestra della suite di un albergo, offesa per vedere disatteso un suo ordine d’arredo, o il giorno in cui si mise a inveire come una lavandaia contro il figlio dell’imperatore tedesco Guglielmo II che aveva osato mostrarsi indifferente nei suoi confronti, accogliendo nella sua carrozza un’altra al posto suo. Fu un’esibizionista eccentrica e insistente, immortalata da Boldini, da Augustus John nella sua chioma rossa leonina, da Man Ray che ne moltiplicò il sortilegio dello sguardo da Medusa surrealista, con le pupille dilatate per le gocce di belladonna che aveva l’abitudine di iniettarsi apposta, e persino da Cecil Beaton, il mondanissimo fotografo che la fotografò di soppiatto, poco prima che morisse, col viso dietro una veletta nascosto da una mano guantata. Adulata, imitata, invidiata, rimase sola come un cane quando finì per dissipare del tutto l’immenso patrimonio paterno, per ritrovarsi a Londra, in una misera camera ammobiliata, messa al bando dal genero, foraggiata dalla sola nipote Moorea Hastings, la figlia di Cristina che in prime nozze aveva sposato un altro eccentrico, discendente dei Plantageneti ma con smanie da artista, insieme al quale dopo lungo girovagare per il mondo sarebbe finita nei letti messicani di Frida Kahlo e Diego Rivera…

       

    Come Luisa Casati, anche Peggy Guggengheim era una patita dell’arte come forma estrema dell’esistenza. Anche lei era nata miliardaria, ma diversamente dalla marchesa moltiplicò per mille il suo capitale, comprando opere d’avanguardia per pochi dollari in piena guerra, salvando dalla fame e dalla galera artisti destinati alla gloria, battendo la borsa nera, trattando senza complessi con la mafia marsigliese, e realizzando il sogno di una vita bohémienne con tutti i suoi attributi: gusto sfrenato del sesso, compensatorio o fine a se stesso, passione cieca e tenace, masochismo, insensibilità emotiva, disastri umani a iosa (amanti morti di colpo, mariti alcolizzati o traditori, figli trascurati e dunque molto disturbati, di cui una femmina, Pegeen, bella depressa e poi suicida, e un maschio, Sindbad, da lei considerato sempre un minus habens). In effetti, l’ultima dogaressa veneziana era un’insicura, animata però da feroce egoismo, curiosità vorace e instancabile energia. Ancora vecchia sfrecciava sulla Laguna con i suoi occhialetti pop a bordo del motoscafo Cleopatra, e quando dovette venderlo si faceva cullare sulla gondola coi fregi d’oro scolpiti in rilievo. Anche lei come Luisa Casati aveva scelto Venezia per rifarsi una vita, dopo il naufragio del secondo matrimonio con Max Ernst, dopo una serie di avventure di letto senza costrutto, e dopo aver deciso di chiudere a New York la sua galleria-museo unica al mondo, Art of this Century, aperta durante la guerra per riunire insieme per la prima volte opera d’arte europee e americane. All’opposto della marchesa Casati che inseguiva i suoi fantasmi per ricrearsi una realtà parallela tutta sua, Peggy Guggenheim plasmava la realtà per ricavarne un sogno collettivo. Pragmatica, attenta al soldo, determinata, essendo nata americana era una volitiva, piena di risorse, disposta a tutto e sempre pronta a rinnovarsi di continuo e andare avanti, infilandosi in qualche nuovo letto senza andare troppo per il sottile, pur di uscire da un legame infelice, fosse il connubio impossibile con Laurence Vail o il divorzio umiliante da Max Ernst, che si era fatto incastrare obtorto collo sempre secondo lo stesso schema – l’amante ricca e generosa che annettendosi il genio gli garantisce la serenità di creare. Anziché perdersi e farsi consumare dalla vita, ogni volta trovava un nuovo slancio per superare abbandoni, ferite, tradimenti e umiliazioni. Ne visse tante Peggy Guggenheim, e soprattutto, a differenza della divina Casati che pur essendo un’esibizionista restò sempre un’introversa incapace di esprimersi e in fuga dalle emozioni, le volle raccontare in prima persona usando il suo stile maldestro, le battute goffe salvate solo dall’ostentazione dell’autoironia, e ne spiattellò tutti i particolari nelle sue memorie, altro libro da leggere di corsa (“Out of this century”, esiste una traduzione Rizzoli con prefazione di Gore Vidal, che ne andava pazzo).

      

    Del progetto, cinque piani con portico e attico tra l'Accademia e la Salute, restano le fondamenta e un solo piano in marmo bianco

    E pensare che per tutta la vita si sentì una declassata, inadeguata alla grandezza della famiglia. Era la nipote di Meyer Guggenheim, dal quale aveva ereditato il grosso naso, gli occhi penetranti e di sicuro la follia del fare. Il nonno era un ebreo, venditore ambulante di professione, emigrato in America nel 1848 per fare fortuna. Iniziò con i merletti ricamati e un lucido per pulire le stufe, ma nel giro di cinquant’anni si ritrovò a capo di un impero industriale, che all’inizio del secolo controllava il 75 per cento del mercato mondiale dei minerali, rame, argento e piombo. Anche Peggy come Luisa Amman era rimasta orfana bambina, quando suo padre Benjamin, marito molto sciupafemmine di una moglie ossessiva, perse la vita da eroe nell’affondamento del Titanic. Ma a differenza dell’italiana, che si fece subito impalmare dal marchese Casati, Peggy Guggenheim aveva un’indole ribelle e iniziò a lavorare in un ufficio per le forniture militari e poi in una piccola libreria al Village, flirtando subito con un giovane capellone che riteneva un genio, mentre era solo un pazzo nevrotico, Laurence Vail. Appena lo rivide a Parigi, dov’era andata in viaggio con la madre, se ne lasciò sedurre e lo sposò su due piedi, felice di abbracciare la bohème letteraria. Vitale, curiosa, cieca a se stessa e disposta a tutto, le botte, le scenate, persino le minacce di morte da parte del marito infelice, perché frustrato e già alcolizzato, gli scodellò due figli e appena possibile lo lasciò per un primo amante – altro capitolo tragico – seguito da una sequela di storie di sesso, sempre però sublimate dall’arte e dalla ricerca spasmodica di un mondo altro, più ricco di quello reale, che la spinse persino nelle braccia di Samuel Beckett, genio silenzioso e aridissimo, dal quale fu puntualmente piantata. Senza darsi per vinta, rimbalzò grazie al suo lavoro, inventandosi a quarant’anni una vita da gallerista, dopo essersi fatta spiegare ben benino da Marcel Duchamps, amico suo dai tempi di Parigi, la differenza tra Picasso e Braque, e aprire a Londra la prima galleria. Fu l’amica di Calder, di Tanguy, l’amante e poi la moglie di Max Ernst, la prima committente di Jackson Pollock, che stipendiò per anni sottraendolo al suo lavoro di fattorino, e moltissime altre cose.

      

    Nel 1946, accompagnando in viaggio di nozze a Venezia l’amica Mary McCarthy (che ne ricaverà un racconto tremendo, “The Cicerone”, dove la protagonista è una Polly Grabbe, ricca ninfomane espatriata che colleziona statue e passa i conti al setaccio), Peggy Guggenheim capisce di voler tornare a vivere lì sulla laguna, dove aveva vissuto i primi anni di matrimonio. Si libera della galleria newyorkese e trasporta l’intera collezione in Italia, accogliendo l’invito a esporla alla Biennale del 1948, nel padiglione greco rimasto vuoto. Inizia così per lei l’ultima metamorfosi della miliardaria che rinuncia alla vita bohémienne per darsi alle mania di grandezza.

       

    Di Luisa Casati non doveva sapere granché, quando scopre, grazie al conte Elio Zorzi, responsabile dell’ufficio stampa della Biennale, l’esistenza del Palazzo Venier. Trasformato in alloggio militare per i soldati tedeschi, il palazzo era in condizione di perfetto abbandono, col giardino ridotto a una palude, i cespugli alti due metri, gli stucchi scrostati, i muri crepati dall’umidità. Ma sotto le impronte degli stivali sporchi di fango dei soldati tedeschi, c’era ancora un bel pavimento in mosaico, e al piano superiore c’erano sei stanze da letto ciascuna col suo bagno. Peggy Guggenheim capì subito che con poche modifiche quel palazzo poteva diventare una galleria, e una casa museo dove vivere e mettere in mostra la sua collezione. All’inizio del 1949 fece un’offerta di 60 mila dollari e concluse l’affare. Il venditore del resto, era talmente bello che l’avrebbe volentieri incluso nel pacchetto.

       

    La stagione di Doris a Palazzo Venier culminò in un famoso ballo di fine estate nel 1938. Gli invitati arrivarono da tutta Europa

    Dudley Delevingne era il fratello di Doris Castelrosse e l’unico erede di quella bella avventuriera inglese dal volto enigmatico, che sembrava la reincarnazione di Moll Flanders. Doris Delevingne era diventata viscontessa di Castlerosse grazie alle improbabili nozze con Valentine Castlerosse, un vecchio aristocratico bruttissimo, grassissimo ma molto spiritoso e così masochista da essere completamente pazzo di lei: in realtà il marito era un mezzo fallito alquanto spiantato, riconvertito nel giornalismo mondano come notista di successo del Sunday Express perché dotato di amici influenti e di una madre castratrice, che fra l’altro furono talmente contrari alla mésaillance da indurlo a perpetrarla. La vita di Doris ha tutti gli ingredienti di un romanzo di Defoe riscritto per i lettori del Novecento: l’estrazione mediocre, la bellezza sfacciata, l’indole ribelle, l’anticonformismo, l’imprudenza, lo smacco sentimentale, la durezza della solitudine, e poi il cinismo che fece di lei une grande horizontale dotata di astuzia luciferina, massima perversione, ancorché priva di fortuna, con conseguente perdizione e un’uscita di scena da tragedia esistenzialista.

       

    A Venezia si respirava ancora l’eco trasgressiva delle sue serate, con danze sfrenate, orchestre di jazz che suonavano fino all’alba, cocktail stravaganti, fumi di alcool, luci sfavillanti sul Canale… Quella di Doris Castlerosse a Palazzo Venier fu una breve, ma intensa stagione. Iniziò nel 1936 con l’acquisto del palazzo a suo favore da parte di una ricchissima ereditiera americana lesbica, conosciuta durante una crociera in Cina con Jean Cocteau, tale Margot Liddon Flick Hoffmann, che le lanciò un’insperata ciambella di salvataggio quando pensava di aver esaurito ogni altra risorsa sul versante maschile. E prima che la guerra mettesse fuori gioco anche in Italia le proprietà degli stranieri, cittadini di paesi nemici, culminò in un famoso ballo di fine estate nel 1938. Gli invitati arrivavano da tutta l’Europa. C’erano molte teste coronate, come il giovane Filippo di Grecia, che anni dopo avrebbe ricordato la serata parlandone con Peppy Guggenheim e offrendole un’altra occasione per una delle sue memorabili gaffe. C’era il mondanissimo Cecil Beaton, che anni dopo avrebbe immortalato la marchesa Casati, e che era stato per due anni uno dei tanti amanti di Doris, nonostante la sua omosessualità conclamata, nonostante l’indifferenza verso di lei confessata nel suo diario, che Doris scoprì leggendolo di nascosto e facendo finta di niente, tanto era a caccia di occasioni per tradire il marito, umiliandolo e ridicolizzandolo pur di sbarcare il lunario.

      

    La sua massima di condotta era semplicissima: “Il letto di una Lady inglese è il suo castello”, e a essa restò fedele per tutta la vita, scegliendo accuratamente il fior da fiore fra i dandy, i colti, i lord e i semplici di spirito da concupire, portandoseli a letto in casa del marito, facendosi regalare appartamenti a Mayfair, cercando di capitalizzare al massimo le uniche risorse di cui disponeva, il suo corpo, il suo fascino perverso, e la perizia nell’uso di un certo muscolo della vagina, pari solo a quella usata da Wally Simpson per conquistare Edoardo VII. Persino Winston Churchill, stando a quanto sostiene Judith Mackrell, finì per cadere nella sua rete, ospite insieme con lei di Maxine Elliot in Provenza, un’estate in cui l’adorata Clementine era partita per una crociera di cinque mesi nei mari del sud, mettendosi a sua volta a flirtare in proprio. Lei aveva 35 anni, lui era un politico famoso che da pittore dilettante le aveva già fatto il ritratto. Una foto li coglie assorti in una conversazione en tête à tête a capo di una lunga tavolata, come se fossero completamente soli in mezzo a tanti ospiti. E pare che gli intimi fossero al corrente delle visite di Churchill nell’attico di Doris a Berkeley Square, ricevuto in dono da un altro amante generoso. Ma in piena guerra quando Doris decise di espatriare in America al seguito di Margot per giocarsi le ultime carte, Churchill fece di tutto per rivederla e la convocò a Washington per un incontro segreto. E quando lei ritornò a Londra come una naufraga, sola, senza un soldo, senza un lavoro, senza un futuro, accusata di tradimento, sentì alzarsi intorno a sé il cordone di sicurezza e, stretta nella morsa della censura, finì per soffocare, nessuno sa se per volontà o per caso, morendo imbottita di barbiturici in una squallida stanza d’albergo.

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